Da “Bella ciao!” a “ciao, bella!”: femminismo e periferia

“Le nostre città sono l’iscrizione in pietra, mattoni, vetro e cemento del patriarcato”. Inizia così, con una frase della scrittrice Jane Darke, “Femminismo di periferia” di Martina Miccichè, appena pubblicato per Edizioni Sonda. Il libro analizza la frattura centro-periferia da una prospettiva femminista, dove la periferia – è questa l’interessante prospettiva della scrittrice milanese della Comasina, che sul web si definisce “scienziata politica, fotoreporter, femminista antispecista” –  è intesa e vissuta come “tutto ciò che viene marginalizzato dallo sguardo del centro”. Non più una definizione geografica, ma l’epicentro del potere che si esplica in un intreccio tra capitalismo, patriarcato e iper-consumismo. In questo scenario, i corpi e le identità non conformi che sfuggono a queste dinamiche, vengono dapprima marchiati con uno stigma di inferiorizzazione e poi spinti sempre più ai margini, per lasciar spazio al modello egemone: maschio, bianco eterosessuale, ricco.

Secondo l’autrice milanese le tracce di queste dinamiche disfunzionali si trovano ovunque nelle città. Per esempio nel “mito” della maternità come apogeo nella vita di una donna che però non viene minimamente supportata da istituzioni e servizi (a meno di non disporre di redditi per accedere a quelli privati, ovviamente) o nella toponomastica e intitolazione degli spazi pubblici in una memoria selettiva ed escludente.

Ampio spazio nel libro viene dato al fenomeno del catcalling, le cosiddette “molestie di strada” a cui molte donne rispondono rimodellando la mappa e gli orari dei loro spostamenti in una sorta di auto-adattamento che le responsabilizza (o addirittura colpevolizza) passando al setaccio i loro vestiti, comportamenti ed amicizie. Una limitazione della libertà di movimento declinata al femminile, legata a doppio filo al verbo “evitare”: evitare certi vestiti, certe strade, certi sguardi; “evitare” che somiglia tanto a “rinunciare”. Non a caso gli slogan del movimento femminista sin dagli anni Settanta rivendicano la libertà di girare per le città, giorno e notte – “la notte ci piace, vogliamo uscire in pace”. E i numeri riportati non lasciano adito a dubbi: da tutti i sondaggi emerge che la percezione del pericolo dipende dal genere; infatti ciò che temono di più gli uomini è la rapina, ciò che temono di più le donne è lo stupro. Per questo alle donne, sin da piccole si insegna che devono proteggersi rendendole però potenziali prede che devono provare a scamparla ogni volta. Secondo l’autrice, la società patriarcale si regge sulla paura e sulla limitazione di libertà delle donne, e per riprendersi lo spazio pubblico e sparigliare le disuguaglianze di classe, sesso, razza e religione serve un cambiamento radicale, che attraversi tutta la società.

L’ultimo capitolo del libro esplora, attraverso reportage e testimonianze, le pratiche condivise esistenti per un’alternativa al sistema attuale, dove sono creati spazi liberati di autorganizzazione, autodeterminazione e autonarrazione. Se infatti il capitalismo e il patriarcato si fondano sulla competizione e sull’accumulazione, il femminismo propone cura, empatia e sorellanza ed il femminismo di periferia le rivendica come espressione di esistenza e resistenza. Saranno le periferie a cambiare il mondo e quindi amiamole perché come ha scritto Selam Tesfai, attivista eritrea del movimento femminista intersezionale (quello per cui tutte le discriminazioni sono tra loro collegate) “Amare la periferia è rivoluzionario”.

Martina Miccichè
“Femminismo di periferia” con presentazione di Selam Tesfai,
Edizioni Sonda, 175 pagine, 18 euro

Testo di Monica Macchi

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