Sabina Guzzanti, in scena dal 27 febbraio al Teatro Carcano, ci parla dello spettacolo Le verdi colline dell’Africa, di Milano, del suo ultimo libro a sfondo “tecnologico”

Allacciate le cinture di sicurezza alle poltroncine. Al Teatro Carcano da martedì 27 febbraio (con repliche fino al 3 marzo) arriva il ciclone Sabina Guzzanti che porta in scena nella triplice veste di autrice, interprete e regista il suo nuovo spettacolo: Le verdi colline dell’Africa, insieme a Giorgio Tirabassi. Non lasciatevi fuorviare dalla locandina. Lei con casco beige coloniale in paglia a tesa larga con velo e lui con baffetto, casco safari e binocolo, tanto da sembrare Katharine Hepburn e Humphrey Bogart nel film del 1951 di John Huston La regina d’Africa, con i tedeschi in agguato per farli colare a picco. Né dal titolo dello spettacolo che rimanda al romanzo d’avventura e di caccia Le verdi colline d’Africa di Ernest Hemingway, che è la descrizione del primo safari a cui lo scrittore partecipò, nel 1933, nella regione del Lago Manyara, ora Tanzania, in compagnia della moglie Pauline.

«Si può dire che quel titolo che riprende Hemingway, è fasullo, non vuole dire niente. Anche la locandina è soltanto un depistaggio», racconta divertita Sabrina Guzzanti. Il contenuto semmai, dice, «è molto, molto liberamente ispirato al provocatorio e dissacrante Insulti al pubblico, che lo scrittore e drammaturgo Peter Handke scrisse nel 1966 a soli 24 anni. «Il tema è il teatro – precisa Sabina». 

So che non vuoi dare nessuna anticipazione per non sciupare l’effetto sorpresa. 

«Sì brava, posso dire che ci sono tre attori coinvolti: io, Tirabassi e il pubblico. Lo spettacolo indaga proprio sul ruolo degli attori, soprattutto a cosa serve il teatro. Di più non mi sento di dire. Si ride, molto, si riflette, si sta a teatro».

In che senso?

«Il teatro è un’esperienza di condivisione, di scambio di emozioni, è un rito. Qualunque cosa succeda o si dica sul palcoscenico davanti a degli spettatori, anche una sedia o un attore di spalle in silenzio, è già spettacolo. Unica variabile fondamentale è la presenza di un pubblico, o meglio di un interlocutore: a qualcuno bisogna rivolgersi, no? Senza pubblico non c’è spettacolo».

Cosa c’è dello scrittore austriaco?

«Nulla. L’idea mi è venuta leggendo quel copione a cui mi sono ispirata che è un manifesto contro un teatro di convenzione e torpore. Ma tutto si ferma lì. E comunque non c’è satira politica, non si parla del governo o del Pd. Si tratta di un gioco sulla contemporaneità e sulla funzione del teatro. Offrendo uno sguardo satirico e provocatorio. Sulla società, sulla politica, sui social media, sui punti critici, le ossessioni e le contraddizioni della società contemporanea. Quello che conta alla fine è l’essere stati smossi. Che è poi il senso di un teatro vero e autentico che vada oltre la mera evasione e che stimoli la riflessione. L’opera si concentra sull’interazione con il pubblico. Credo che già questo sia spiazzante, divertente e sorprendente».

Hai vissuto a Milano per un periodo. Il tuo luogo del cuore?

«Il quartiere Isola, corso Garibaldi, dove ho abitato, corso Buenos Aires. Lo Zelig dove ho fatto il mio primo spettacolo».

Un ricordo?

«2011. Teatro Smeraldo, quello che poi è diventato Eataly. Una sala colma di persone – tra le quali non è stato difficile intravedere anche Enzo Jannacci –. Avevo aperto lo spettacolo sulle note di un ritornello che suonava più o meno così: “nel mio cervello scorrono neuroni…”. Un invito già allora a far funzionare la propria testa, a reagire alla standardizzazione imperante del pensiero, a non subire acriticamente tutte le informazioni che ci giungono a raffica dal “regime mediatico”. Sino ad arrivare al gran finale, con un’imitazione del presidente del Consiglio. Di cui, per scelta deliberata, non viene mai pronunciato il nome. Indovinate un po’ chi era».

Cosa ti piace di Milano?

«I tram. Li adoro». 

Cosa non ti piace di Milano?

«Gli affitti troppo alti. E l’aria che si respira. Parlo di inquinamento atmosferico. Fanno sobbalzare le rilevazioni di una società svizzera che ha messo il capoluogo lombardo in cima alla classifica delle città più Inquinate del mondo da polveri sottili. Come Nuova Delhi, Lahore, Wuhan, Pechino».

Cosa farai in questi giorni a Milano, prima di salire alle 19,30 sul palco del Carcano?

«Mi piace vagabondare per la città senza meta, come faccio in tutte le città quando arrivo in tourneé con uno spettacolo.  Mi dà un senso di libertà tutto mio. Escogito mascheramenti: occhiali e berretto per non farmi riconoscere e passare inosservata. Se riesco vado al cinema Anteo dove di solito presento i miei film (l’ultimo Spin time: che fatica la democrazia – Ndr) a vedere Povere creature da Yorgos Lanthimos. che non ho ancora avuto il tempo di vedere».

Dopo aver dipinto un XXII secolo catastrofico in 2119 – La disfatta dei Sapiens, hai appena pubblicato un secondo libro di fantascienza ANonniMus. Chi sono gli AnonniMus?

«Un gruppo hacker di anziani, che con i loro attacchi sempre più frequenti, terrorizzano Laura Annibali, genio dell’informatica che arrivata ai cinquant’anni ha deciso di fondare la Huf, un’associazione no profit con la missione di sostenere le persone tecnologicamente inabili».

È una commedia che ruota con pungente ironia attorno a molti temi di grande attualità, come la tecnologia e l’intelligenza artificiale.

«Sia chiaro, questo non è un libro contro la tecnologia. Mi piace sperimentare, sono affascinata dalle nuove tecnologie e trovo che se alcune ci possono facilitare la vita perché non usarle? Ad esempio possono aiutarci a lavorare meno. Lavorino le macchine, va bene bene. Ma cosa farne del nostro tempo libero? Come e a chi vengono distribuiti i profitti del lavoro delle macchine? L’IA ha i suoi lati positivi e negativi, non tanto per l’invenzione in sé quanto per il suo uso improprio. Discutiamo di questo. Non si è aperto neanche un dibattito serio sull’uso etico della tecnologia: è  complicato perché è un processo in mano a quattro multinazionali e agli oligarchi del web. Occuparsene e preoccuparsene non mi pare poco».

L’Ironia è già nel titolo e nel sottotitolo AnonniMus – Vecchi rivoluzionari e giovani robot.

«Sì, è vero, c’è anche una presa in giro nel libro. Anche perché quella che noi chiamiamo “intelligenza”, in realtà non ha nulla di intelligente. Ha solo una grandissima capacità di elaborare i dati in maniera veloce. Se oggi dico a un assistente vocale “Prendimi una birra e portamela sul divano” il sistema non ha nessun problema a capire il messaggio, ma probabilmente non sa dov’è il divano, dove sia il frigo, come si apra e come sia fatta una birra. E per quanto gli ingegneri si sforzino, gli assistenti intelligenti come Alexia non sanno ancora ridere e far ridere. Avete provato a dire una barzelletta al vostro assistente vocale? Non fatelo, non la capirebbe. Il problema maggiore è che noi essere umani stiamo diventando delle macchine, non ascoltiamo, non esercitiamo il pensiero critico, siano incapaci di sentire. È necessario cercare di restare umani e utilizzare la nostra intelligenza, che è più potente di quella delle macchine. Sempre che usiamo i neuroni del cervello che si stima sia costituito da circa 85 miliardi di cellule nervose».

La Guzzanti incendiaria è diventata saggia?

«Sono diventata saggia, se saggezza vuol dire avere più paure. E io ho paura: di indebolirci come esseri umani, di saperci difendere sempre meno e sempre peggio da chi e ciò che ci vuole solo come strumenti. La verità è che, giovani e vecchietti, ci comportiamo tutti come robot e lo saremo finché vivremo il progresso, soprattutto tecnologico, con questa passività. Sappiate che è una fregatura per tutti!  Ecco perché serve parlarsi, parlarne».

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