Intervista Nino Formicola, protagonista dello spettacolo “La cena dei cretini”

Espressivo, funambolico, esattamente come lo abbiamo sempre conosciuto. Dopo il grande successo dello scorso anno, Nino Formicola (con una regia firmata da lui) torna in scena con Max Pisu dal 20 settembre al 22 ottobre al teatro Leonardo di Milano (via Ampére, 1) con La cena dei cretini, esilarante commedia di Francis Veber scritta negli anni Novanta, che apre la stagione teatrale 2023/24 di Manifatture Teatrali Milanesi. Nino Formicola, classe 1953, protagonista indiscusso della comicità degli anni Ottanta, insieme ad Andrea Brambilla, nel duo comico Zuzzurro e Gaspare, con Drive In, uno show che avrebbe rivoluzionato la grammatica del varietà televisivo. Andrea Brambilla (scomparso il 24 ottobre 2013) nei panni del commissario pasticcione con l’inconfondibile impermeabile, i capelli arruffati e l’aria stralunata e Formicola alias Gaspare, il suo fido assistente ma un po’ carogna, dalla parlantina torrenziale e dalla chioma unta di brillantina.

E poi tanto teatro, accolti entusiasticamente dal pubblico, facendosene un baffo dell’ingratitudine del piccolo schermo.  

Qual è il segreto di questa commedia che ha successo da più di 20 anni? 

«Ogni settimana alcuni amici organizzano una cena dove bisogna arrivare accompagnati da un imbecille totale. Una trama semplice ma di grande impatto comico, come si addice alle commedie più riuscite. È una macchina comica perfetta di comicità con un finale inaspettato. Ormai siamo abituati a veder un tv quelli che arrivano davanti a un microfono e sparano 25mila battute in tre minuti invece La cena dei cretini è costruita sui meccanismi della comicità: silenzi, pause, sguardi, gag fisiche…Ormai in tv questo non si può fare. A teatro sì». 

Ma tu sai cucinare?

«Sono un cuoco vero. E organizzo social dinner per gli amici. Tutto è nato dal fatto che ho passato la vita nei ristoranti, e va bene mangiare certe cose sfiziose, presentate bene… Poi però, dopo un po’, ti viene voglia di mangiare l’arrosto di vitello». 

La ricetta forte di Nino?

Peperoni alla napoletana ‘mbuttunati, farciti con un ripieno gustoso di pane, melanzane, prezzemolo, i filetti di alici sgocciolati, le olive nere snocciolate e i capperi dissalati. Ma sono anche capace di farti la moussakà di gazpacho. E  una cosa che non fa più nessuno: gli spaghetti al pomodoro». 

Presentarsi come Nino Formicola, che effetto fa?

«È quello che sono. Gaspare non c’è più. Rimane lì, in un angolo, con Zuzzurro. La morte di Andrea Brambilla è stata un duro colpo da superare. Tra noi non c’ era la spalla e il comico, funzionava il meccanismo del palleggio, tira la palla contro il muro e l’altro ne coglie il rimbalzo, aggiunge qualcosa e te la rinvia è così passo-passo si riapriva al testo, quello che funziona. E non è un caso se noi siamo l’unica coppia nella storia della comicità a cui cambiavano i nomi. Eravamo Zuzzurro e Gaspare, e ci chiamavano indistintamente Gaspare e Zuzzurro. Eravamo alla pari, interscambiabili».     

Facciamo rewind. Quando hai deciso che saresti stato un comico?

«Una pomeriggio di domenica del 1969 quando mia madre appassionata di teatro mi trascinò con lei al Teatro Nuovo a vedere quattro signori vestiti come dei bachi. Erano “i Gufi”, che facevano Non spingete, scappiamo anche noi. Rimasi letteralmente fulminato da questi quattro attori vestiti di nero, capaci di divertire e intrattenere usando soltanto una scala, una sedia e una chitarra e mi dissi che avrei voluto farlo anch’io. Ed è stato così, ho sempre amato lavorare dal vivo, avere il contatto con il pubblico, sentirne la reazione alla battuta. Cominciai a frequentare il Derby, e poiché ero ancora minorenne e non avevo la patente, convincevo mia mamma ad accompagnarmi in macchina». 

Ti veniva poi anche a riprendere?

«Scherzi? Stava lì anche lei a vedere lo spettacolo fino alle 4 del mattino. Poi compiuto i 18 anni e automunito ero diventato un vero e proprio habitué, non solo non mi perdevo uno spettacolo, ma di nascosto li registravo con un Philps K7: me lo infilavo sotto il maglione e poi facevo passare il filo del microfono attraverso la manica. A casa mi mettevo a rifare gli sketch che più mi piacevano, e avevo coinvolto anche un gruppo di amici di liceo. Creammo il nostro gruppo: I Licantropi». 

Primo palcoscenico?

«Il primo fu quello delle suore Orsoline di via Lanzone, dove studiava mia sorella Cocca (Francesca – NdR). Pezzi di Cochi e Renato. L’incasso, dato in beneficienza. Andò tanto bene che l’anno seguente le suore ci diedero il salone grande del pensionato universitario». 

Ti iscrivi però medicina.

«Volevo fare il neurochirurgo per studiare il cervello, ma al quarto anno capii definitivamente che volevo fare il comico». 

Quando e dove e come avvenne l’incontro con Andrea Brambilla?

«Ci siamo conosciuti nel 1975, tirando l’alba al Refettorio, il mitico locale gestito da Roberto Brivio, uno dei “Gufi”, nel seminterrato di un cortile di via San Maurilio. Andrea lavorava al Derby ed era capitato lì. Ero in scena insieme ai Licantropi con Garabadenzideck uno spettacolo su un golpe organizzato dai barattoli dei pomodori pelati. Pura follia demenziale. Alla fine della serata, si presenta e mi chiede chi era l ‘autore. Da lì, cominciammo a lavorare insieme, nel 1976 abbiamo fondato il gruppo cabarettistico La Compagnia della Forca, in omaggio a una serie di fumetti uscita all’epoca, con noi c’erano Marco Columbro e Barbara Marciano». 

La famosa coppia, Zuzzurro e Gaspare, come nacque?

«A Roma, al Johann Sebastian Bar, un localino dietro via Cola di Rienzo, nel luglio 1978. C’era un caldo allucinante e prima di salire sul palco mi bagnai un po’ i capelli che portavo lunghi e mi si incollarono. Andrea mi guardò e disse:“ aspetta, se tu hai capelli incollati, io invece li tiro su. Poi Andrea si rese conto che il mio personaggio non aveva un nome. Quando ci chiamarono a esibirci: su due piedi scelse quello del barista che avevamo di fronte. La nostra prima comparsa televisiva ufficiale come Zuzzurro e Gaspare fu invece con la trasmissione “Non stop” insieme a Carlo Verdone, I Giancattivi. Dall’ 80 al ’94 seguirono anni intensissimi. Sembrava di stare su uno scivolo imburrato».

Tu e Andrea siete stati anche cognati. 

«Andrea aveva sposato mia sorella. Per fortuna il matrimonio è durato poco fino al 1989, (risata). Era un casino, non ne potevo più. Quando si arrabbiavano mi mettevano al centro: “Quell’imbecille del tuo socio…”, “la scema di tua sorella…”».  

Sei nato a Milano da padre napoletano e madre catanese. In che In che zone hai abitato

«Sono nato vicino a piazzale Maciachini. Papà aveva una fabbrica di alimenti per ristornati a Cinisello e lui voleva stare vicino alla fabbrica, essere il primo ad arrivare. Mia madre non era molto d’accordo, così quando si sono separati, abbiamo traslocato in viale Elvezia, in un signorile edificio progettato dal celebre Architetto Marco Zanuso, davanti al parco Sempione. La prima casa da single, in via Durini, poi corso Monforte, via Mascagni, corso Venezia. Ero un “centrista”, poi una decina di anni fa sono andato ad abitare vicino a piazzale Libia. Non ne potevo più del centro, dove ci sono solo negozi di abbigliamento e non ne trovi uno per comperare una lampadina o un calzolaio per fare risuolare le scarpe in cuoio. Per comprare un etto di prosciutto andavo al bar. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la chiusura del Garage Traversi, la prima autorimessa multipiano della città, aperta h 24, a due passi da piazza San Babila. Parcheggiare era diventato un incubo e fioccavano le multe. Pochi mesi fa ho fatto la scelta di lasciare la città e sono andato a vivere a Peschiera Borromeo e sono molto contento. Mai avrei pensato di lasciarla. Ma da un po’ non la riconosco più. Ma le voglio sempre bene».

Milano stenta a trovare la sua anima?

«Forse c’è da lamentarsi meno che in altre città, ma Milano pare a un bivio. Da un lato, la città è tornata a muoversi, i cantieri non si fermano, gli investimenti si moltiplicano, sono tornati i turisti. Dall’altra, ci sono segnali nuovi e preoccupanti che ci parlano di quel mix di povertà e ignoranza che, non raramente, diventa disagio, solitudine, microcriminalità, malaffare».   

Sei trai testimonial storici dei City Angels. Solidarietà e sicurezza nei punti più problematici e pericolosi delle città.

«City Angels sono uno dei simboli più belli della Milano solidale, riconoscibili dal loro basco blu e la giubba rossa. Li scoprii una notte a San Babila, mentre distribuivano coperte e bevande calde ai senzatetto. A loro ho dato 25 dei 100 mila euro vinti a L’isola dei famosi e altrettanti alla “Libellule”, che si occupa del post operatorio delle donne malate di tumore. Coi miei 50 mila euro, invece, ho saldato i debiti degli ultimi anni».

Cosa ti preoccupa?

«Tutto un complesso di cose che fanno precipitare Milano dal secondo all’ottavo posto nella classifica annuale de “Il Sole24Ore” sulla qualità della vita. Perché gli investitori devono essere solo stranieri e tutto costare una follia? Ecco il punto critico: l’idea diffusa che Milano stia diventando sempre più un’insopportabile “città per ricchi”. Che piace alla finanza e un po’ meno al cittadino scontento del taglio ai servizi, della sicurezza, del costo degli alloggi e della vita. I dehor dei bar, caffè e ristoranti hanno invaso Milano, ma pure chi passeggia ha diritto a un suo “spazio vitale” adeguato. Chiudono le librerie e aprono negozi di paccottiglie. Ha chiuso il teatro Nuovo e arriva Salt Bae: la bistecca vip dell’ex macellaio influencer, impoverendo la città di un luogo di produzione culturale, forse perché come diceva qualcuno con la cultura non si mangia. Ci sono segnali nuovi e preoccupanti che ci parlano, di quel mix di povertà e ignoranza di cui ho detto prima. Il problema esiste e non va sottovalutato. Milano è la città dove avvengono più scippi e rapine. Sul versante viabilità e sicurezza, c’è tanto da fare, ma tanto tanto. Si aggrava il bilancio dei ciclisti investiti e uccisi nei tratti urbani. Personalmente sono favorevole al maggior numero di piste ciclabili possibile. Ma una pista come quella di viale Tunisia non piace a nessuno. Neanche ai ciclisti». 

A proposito di bicicletta, due anni fa hai fatto rivivere su palco il mito di Fausto Coppi. 

«Quando è arrivata la proposta di questo ruolo ho pensato fosse nel mio karma, perché tanti anni prima, mi fecero un servizio fotografico con la divisa di Coppi e la sua bici. Dicevano che gli assomigliavo. Mi fecero fare due tornanti ed io ero morto dalla fatica. Quella bici pesava talmente tanto: 15 kg.  Sai cosa diceva Coppi? “Se la strada è in salita, è perché sei destinato ad arrivare in alto”».

MTM Teatro Leonardo
20 settembre – 22 ottobre
mercoledì/sabato ore 20.30
domenica ore 16.30

Per info e prenotazionibiglietteria@mtmteatro.it/ 0286454545

1 Responses

  1. […] L’impronta lasciata da Nino Formicola nella comicità italiana è stata segnata dalla sua capacità di creare personaggi unici, dalla sua naturale comicità e dalla sua simpatia. La sua presenza nella televisione italiana degli anni ’80 ha contribuito a rivoluzionare la grammatica del varietà televisivo e a creare un nuovo linguaggio comico che ha fatto scuola. Grazie alla sua carriera artistica prolifica e ai suoi tanti successi, Nino Formicola resterà sempre nella storia della comicità italiana. [27][28] […]

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