Termina il festival “Imagine”. Scommegna straordinaria in “La vita davanti a sé”

Da martedì 29 agosto e fino a domenica 3 settembre 2023, piazza Adriano Olivetti, nel quartiere Symbiosis, a sud di Porta Romana (vicino alla Fondazione Prada) ha ospitato la prima edizione di “Imagine 2023 – Festival delle Connessioni Umane“, la rassegna multidisciplinare d’arte partecipata con spettacoli di teatro, musica, danza, incontri e laboratori gratuiti, ideato e organizzato dal Teatro Carcano e con la direzione di Serena Sinigaglia (nella foto sopra con Beppe Severgnini), in collaborazione con Municipio 5, Covivio, e Step FuturAbility District, rientrato negli 8 progetti selezionati all’interno di “Milano è Viva nei Quartieri“, finanziati dal Comune tramite bando con i fondi del Ministero della Cultura. Un’area in forte trasformazione, simbolo del cambiamento del capoluogo lombardo che, grazie anche all’impegno di Fastweb, negli ultimi anni è al centro di un importante progetto di riqualificazione urbanistica. «Il teatro è il luogo per eccellenza dell’incontro”, ci racconta visibilmente entusiasta la vulcanica Serena Sinigalia (condirettrice dal 2021 del Teatro Carcano insieme a Lella Costa), pur in attesa di un delicato intervento al menisco. «Oggi più che mai il teatro combatte la desertificazione dell’essere umano, l’impoverimento culturale, la solitudine del gesto, la frammentazione della polis. Il nostro auspicio è di iniziare con questo Festival un progressivo lavoro per costruire un dialogo con il territorio, che possa generare aggregazione sociale. Ho il desiderio di un teatro che lascia aperta una porta, in cui la vita culturale si mescoli alla vita sociale, in cui ci si guarda negli occhi, tutte le generazioni, in ascolto delle esigenze della comunità. Per dare voce alle inquietudini che ci assediano da tutte le parti. Immaginando una programmazione capace di coinvolgere nuovi pubblici e di formulare pensieri altri. Perché il teatro è quel luogo che non si risparmia, e non risparmia al pubblico, dubbi e interrogativi, questioni e confusioni». 

Il teatro sta dando segni di forte ripresa, più del cinema. Anche la rassegna La Prima Stella della Sera, organizzata nel mese di luglio da Atir (la Compagnia teatrale di cui Sinigaglia è fondatrice, insieme all’attrice Arianna Scommegna che, “sfrattata” dal Teatro Ringhiera è stata capace di continuare a portare avanti un teatro tenace e coraggioso) ha riscosso un meritato successo di pubblico. «Questo mi incoraggia. Non si può pensare a un’umanità senza cultura, senza poesia. Non si può pensare che l’esistenza umana sia priva di quel tessuto che ci rende umani. Non si può. Il teatro è l’arte dell’umanesimo per eccellenza: è fatta dall’essere umano, per l’essere umano, attraverso l’essere umano. È qualcosa che ci aiuta a vivere. E fare comunità. Io lotterò fino a che posso. Ce la metterò tutta. Di stare ferma proprio non sono capace».

La vita davanti a sé” apre il festival con una pièce di grande impatto

Ad aprire la prima giornata di Imagine, per la prosa è stata La vita davanti a sé, splendido spettacolo portato in scena da Arianna Scommegna, accompagnata alla fisarmonica da Giulia Bertasi. Una lettura, tratta dal romanzo di Romain Gary, pubblicato per la prima volta in Francia nel 1975 con lo pseudonimo di Emile Ajar  (se ne scoprì la paternità, soltanto dopo la morte dello scrittore, nel 1980, che si uccise sparandosi un colpo di pistola alla testa), e che ottenne il Goncourt, il più prestigioso premio letterario francese e che ha avuto due versioni cinematografiche, rispettivamente con Simone Signoret nel 1977 e nel 2020 con Sophia Loren, diretta dal figlio Edoardo Ponti.

È la storia raccontata in prima persona da Momò, Mohammed, un ragazzino tenero e sfrontato che ha forse una decina di anni (non lo sa neanche lui con certezza), non molto istruito ma pieno di energia vitale, che miscela l’ingenua spavalderia della gioventù con una sensibilità rara. Siamo a Parigi, nella Belleville degli anni 70, una periferia piena di razze, colori, lingue e religioni, ma ugualmente povera e degradata come quella di oggi. Figlio di ignota prostituta, Momò vive con altri “figli di puttana” (così lui stesso si definisce) nella casa al sesto piano senza ascensore di Madame Rosa, ex prostituta ebrea tornata viva da Auschwitz che, ormai anziana, grassa e malandata, ha chiuso con il mestiere e prende a pensione i figli “accidentali” delle  colleghe più giovani in attività altrimenti destinati al brefotrofio perché in Francia una legge vieta alle prostitute di allevare i propri figli. Tra Momo e Madame nasce un legame profondo. E quando le condizioni di salute di Rosa peggiorano e non ce la fa più a salire i sei piani di scale sarà Momo a prendersi cura dell’anziana Rose. E faranno di tutto per non essere separati, perché sono tutto quello che hanno a vicenda. “Avevano tutti e due bisogno di amore come non si era mai visto alla loro età, e dovevano unire le loro forze”. La forza dei sentimenti è il perno su cui riescono a ruotare i due protagonisti, naufraghi emersi da un mondo sommerso, capace di dare un senso alla vita di un ragazzino solo. 

Eccola Arianna Scommegna sul palco-una scenografica pedana presente nello grande vasca d’acqua che fiancheggia l’edificio Fastweb, ci conduce dentro le pagine del libro, diventando, con naturalezza, quel bambino ingenuo, sfrontato, ora scherzoso, ora allegro, ora nostalgico, arguto, preoccupato, impaurito, triste, addolorato. Con gli occhi sgranati sul mondo, con quei ragionamenti che seguono una logica impeccabile. 

È sorprendente la bravura con cui Arianna Scommegna riesce a dar vita alla voce di Momò, alla risata di Momo, alla sua ingenuità. La sua bontà, le sue paure, la sua semplicità, il suo stupore e la sua ironia nel descrivere ciò che osserva e vive ti fanno ridere, ti fanno provare tenerezza, ti fanno riflettere, ti fanno sciogliere, ti fanno divertire e ti fanno piangere. La ricchezza di registri vocali e gestuali, la mobilità di un viso non canonico ma affascinante nella sua mutevole espressività, dal poetico al drammatico, con sublimi tocchi di comicità, l’attrice ci incanta e ci trascina lontano. Per l’intera durata della pièce, circa 90 minuti, Arianna a passa da un personaggio all’altro con disinvolta bravura. È incredibile come in un attimo diventi Momò  e un minuto dopo sia Madame Rose. E con capacità camaleontica di virare bruscamente voce e toni impersonando un caleidoscopio di personaggi strampalati, eppure sempre profondamente umani, resi con tratti essenziali e vivaci a un tempo che popolano l’universo che circonda il ragazzo. Il signor Hamil, ex venditore ambulante di tappeti (“un grand’uomo, ma le circostanze non gli hanno permesso di diventarlo”), Madame Lola, bellissimo travestito – ex campione senegalese di pugilato –; il signor Waloumba che è “venuto a spazzare la Francia” (cioè a fare lo spazzino). La bella Nadine, attrice e doppiatrice. O ancora il dottor Katz (“che pratica la “medicina generale” perché cura tutti: ebrei, “per non parlare degli arabi, dei neri e tutte le specie di malattie”). Un rapido scorrere di stati d’animo, di emozioni che ti coinvolgono in modo davvero magico.

Scommegna con la sua capacità di immergersi totalmente nei personaggi che racconta, ha una intensità recitativa da togliere il respiro agli spettatori, respiro che manca in certi momenti a lei stessa per quanta passione ci mette in questa narrazione drammatica, per quante maschere riesce a indossare per dare corpo a tutta una complessa umanità. Ci pensa la brava Giulia Bertasi a dare qualche minuto di tregua al racconto (e a far riprendere fiato anche alla protagonista in scena), e interviene a sottolineare i punti culminanti della narrazione con la sua fisarmonica che suggestivamente si riflette nell’acqua e si increspa di piccole onde quando si alza il vento, con canzoni francesi e scelte musicali che sottolineano bene sia l’ambiente multietnico in cui si svolge la vicenda, sia gli stati d’animo del protagonista. Anche Giulia è strettamente immersa e coinvolta dal racconto. Lo capisci dai suoi sguardi che lancia ad Arianna, ora severi, ora maliziosi, evidenziano una sotterranea complicità fra le due artiste e un sodalizio artistico che nasce una decina di anni fa.

Protettivo e attento alla sua salute di Madame, quando i grandi gli dicono con invidia che ha tutta la vita davanti a sé, Momò si risente che glielo rinfaccino. Vorrebbe soltanto poter tornare indietro, quando Madame Rosa era ancora giovane e bella, non grassa e malata come adesso. Non ha nessuno al mondo tranne lei, e lei non ha nessuno al mondo tranne lui. 

Quando arriva Kadir Youssef uscito dopo 12 anni dal manicomio criminale per l’omicidio della moglie, Momò scopre di avere 14 anni, ma Madame Rosa si rifiuta di consegnare il figlio all’uomo, che muore stroncato da una crisi cardiaca. Momò sa che, prima o poi, Madame Rosa diverrà (un) “vegetale” e, vedendola soffrire non riesce a capire perché però, “è proibito abortire i vecchi”. Madame Rosa vuole morire in cantina, dove ha costruito il suo rifugio ebraico segreto, lontano da medici e ospedali, il suo angolo di pace, come faceva da piccola quando si nascondeva sotto le baracche del campo di Auschwitz. La vita davanti a sé”, con tono leggero, tratta temi importanti e profondi, molto attuali come l’emarginazione, il degrado della banlieue, la demenza senile, l’eutanasia. Li affronta con semplicità e senza infingimenti. È strano sentir parlare con tanto amore degli emarginati. Con tanto rispetto; attraverso gli occhi di Momo si trasfigurano: diventano belli, preziosi. Non spoileriamo cosa succederà a Momò (leggete il libro di Roman Gari pubblicato da Neri Pozza, in attesa di rivedere Arianna di nuovo a teatro) ma le parole con cui ci lascia sono indimenticabili e struggenti: “bisogna voler bene”.  Perché non si può vivere senza amore.

Grazie, grazie di essere qui, evviva  il teatro, dice  l’attrice sinceramente emozionata, accomiatandosi fra gli applausi e un coro di “brave, brave”.  Sfida vinta. Il teatro è vivo e per una sera (davvero magica) ha cambiato il volto della piazza di 13mila metri quadrati, 20.500 mq di uffici, trasformandola in luogo denso di energia vitale. Per ricordarci che insieme possiamo ancora donarci qualcosa di buono, come dice il piccolo Momò. Che la poesia e la bellezza sono cura per l’anima e che il teatro è il luogo che le può custodire. Che come dice Arianna Scommegna, «ci rende simili anche se sconosciuti, e in questa affinità intuire un senso nell’assurdo dell’esistenza». I passi si disperdono nell’oscurità della notte come stelle filanti, c’è chi accelera il passo per raggiungere, nel vicino Largo Isarco, la fermata della linea 65, direzione centro città e metropolitana di piazzale Lodi. L’ultima corsa è alle 22,22 e spesso il bus passa in anticipo, c’è chi si lamenta (“decisamente troppo poco e troppo presto”) e lancia un appello ad Atm: mettete qualche corsa serale in più che consenta di assistere un concerto, godersi uno spettacolo, un film al cinema della Fondazione Prada e di tornare a casa coi mezzi. Centro e periferia allora si integrano, facendosi l’uno sostenitore dell’altro, e andando a costruire attraverso il teatro una mappa fatta di nuovi collegamenti, nel tentativo di non lasciare isolato nulla.

Ripenso alla parole che mi ha detto Arianna prima dello spettacolo.«Per me il teatro è un dono. In teatro ci si dona all’altro. Gli attori tra loro e al pubblico; e anche il pubblico, preparandosi con cura e venendo da casa, dona un pezzetto della sua vita. Ci si dona qualcosa che sta in mezzo a noi, tra noi, che non è palpabile ma è molto concreto. Ridere, piangere e immaginare insieme qualcosa che non c’è. Tutti insieme». 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *