Lina Sastri al Manzoni con “Eduardo mio” racconta il suo vissuto artistico e umano con il grande attore e drammaturgo napoletano

«Ho avuto il privilegio non solo di conoscerlo ma anche di avere nel tempo il suo affetto e l’onore della sua stima. Nello spettacolo racconterò il “mio Eduardo” quello che appartiene ai miei ricordi e alla mia vita di artista e di donna. Con sincero affetto e umiltà di allieva». Lina Sastri arriva al Teatro Manzoni di Milano il 16 e 17 dicembre con Eduardo mio, da lei ideato, scritto, diretto e interpretato, dedicato al “Maestro di vita e di teatro”. “Lina era brava già, io gliel’ho fatto solo sapere”, così disse il grande Eduardo De Filippo parlando del talento di Lina Sastri, con il quale l’attrice ha recitato sin da giovanissima e si è forgiata come artista, dalle semplici comparse a ruolo di protagonista. Da quel felice esordio, l’attrice napoletana ha attraversato tanti generi teatrali incrociando parole, recitazione e canzone napoletana, fino a confluire in una serie di opere da lei concepite come Linapolina, Pensieri all’improvviso e La Casa di Ninetta, il monologo tratto dall’omonimo romanzo breve, ispirato alla madre scomparsa, che è diventato nel 2023 anche il suo primo film da regista. 

Lina Sastri racconterà, il suo Eduardo, in un’ora e cinquanta minuti di spettacolo, con lettere, poesie, aneddoti, il tutto accompagnato dalla musica che lui molto amava. «Non ho un copione rigido, recito a braccio, vado per suggestioni basate sul momento e lo stato d’animo. Se vedrete lo spettacolo per due sere, ascolterete le stesse canzoni, ma le parole saranno diverse», racconta Lina. In scena, indosserà un favoloso abito bianco (il suo colore preferito), un bracciale di cornetti rossi (la sua anima napoletana), gli occhi che hanno il colore della notte, la voce calda e roca, la sua gestualità (estrema e dolce al contempo). E un microfono in mano. Ad aprire lo spettacolo una canzone piena di struggente poesia: Uocchie C’arraggiunate di Roberto Murolo. Indimenticabile l’accenno che ne fece Eduardo De Filippo nella commedia Gennariello: nei panni del protagonista, la canta alla moglie Concetta, la straordinaria Pupella Maggio, dopo una sbandata amorosa. «Canto i brani musicali amati da De Filippo, da Reginella a Canzone Appasiunata, a Totonnoe Quagliarellla“». Ad accompagnarla Ciro Cascino (pianoforte e tastiere), Filippo D’Allio (chitarra e mandolino), Gennaro Desiderio (violino), Gianluca Mirra (percussioni e batteria) e Gaetano Diodato (contrabbasso). E fra ricordi personali, aneddoti, stralci delle opere di Eduardo, ci sono anche le poesie scritte da Eduardo che fanno da intermezzo. “Si t’o sapesse dicere”: Ah… si putesse dicerechello c’ ‘o core dice; quanto sarria felicesi t’ ‘o sapesse dì! E si putisse sènterechello c’ ‘o core sente, dicisse: “Eternamente voglio restà cu te!”.

Cosa significa per te questo spettacolo dedicato ad Eduardo? 

«Eduardo diceva che la scrittura del teatro comincia dal titolo. Così ho fatto questa volta. “Eduardo mio” non ha il significato dell’appartenenza. Ho passato in rassegna i ricordi, li ho scelti e riordinati uno per uno, li ho messi in fila collegandoli in forma di racconto sincero e diretto, al punto che a volte sul palcoscenico, come ho detto prima, perdo di vista il filo del copione. Racconto di lui quello che so, quello che ho vissuto quando ho avuto la fortuna e il grande privilegio di conoscerlo, da giovanissima». 

In un’epoca carente di grandi maestri (a circolare sono semmai i cattivi maestri) il titolo del tuo omaggio a De Filippo non può far a meno di far riflettere.

«Ho avuto la grande fortuna, il grande privilegio, non soltanto di aver conosciuto un maestro – cosa che ai giovani adesso tanto manca –, ma anche di aver conosciuto la persona di Eduardo. Un uomo nobile, severo e dolcissimo ma soprattutto teneramente vero ed umano. Tante cose mi ha insegnato coi fatti e non con le parole, coi silenzi. La scena si domina anche tacendo, con le pause, con gli sguardi e lui lo faceva con magica alchimia. Eduardo era capace di recitare in silenzio, con quel suo volto scavato e pieno di fossette nelle quali c’era, come lui diceva, “il gelo selvaggio del teatro”. Di lui ricordo soprattutto il grande rigore e la grande sensibilità dell’uomo. Io mi sentivo molto capita da Eduardo, come donna e come persona». 

Come manifestava il suo affetto e la sua stima?

«I complimenti sussurrati quasi di sfuggita. Una sera andai a vederlo, quella sera che fece una grande serata in onore della sorella Titina. Poi andai a salutarlo, volevo una dedica, volevo un saluto. E lui, dietro il biglietto d’entrata scrisse: “A Lina Sastri, la bella Lina che diventa ancora più bella quando entra in scena”. Mi diceva: “Tu dovevi nascere in un altro secolo, dovevi nascere quando si mandavano alle attrici i fiori con le perle dentro, ma visto che sei nata adesso… sorridi però! Sorridi!”. E non posso dimenticare quando debuttai con Gli esami non finiscono mai, mi regalò una battuta – non era tenuto a farlo – che faceva ridere il pubblico. In scena, il medico doveva visitarlo: dica 33. E lui muto. Dica 33, dica 33… E lui niente. Sbottai io, la comparsa: Lo dico io 33». Ecco, fu in quella occasione che toccai con mano e con l’anima l’effetto di Edoardo e del pubblico».

Quale insegnamento di Eduardo ti portai ancora dentro le stanze del cuore?

«Sicuramente il rispetto per sé stessi che poi diventa rispetto per gli altri, per il teatro e più in generale per quello che fai. Mi rimbrottò quando non volevo essere pagata per una settimana di repliche pattuite e non fatte: “Non rispetti il denaro, te stessa”. Mi ha insegnato la fatica, era sempre il primo a venire a teatro e l’ultimo ad andarsene, il rigore, la tenacia, che ti serve perché non è vero che al primo tentativo ti va bene e devi impegnarti a dare il meglio. La libertà di portare avanti le proprie idee, di rischiare, restando fedeli a sé stessi».  

Per fare buon teatro bisogna rendere difficile la vita dell’attore, diceva Edoardo.

«Ho negli occhi ancora il primo sguardo di ghiaccio per non aver indossato ori, gioielli e orecchini. Ne Il Sindaco del rione Sanità entravo alla fine del terzo atto col mio vestitino rosso, corto, piena di collane, bracciali e robe varie. Una sera non li misi, “Tanto – pensai – chi mi vede fra il pubblico”.  Eduardo recitò il suo monologo da sindaco: “Avete portato le vostre donne con i loro bracciali, le loro collane”. Aveva improvvisato quelle parole vedendomi senza le collane. Mi sentii gelare. Che lezione. Capii, allora, che in teatro ogni dettaglio fa la differenza. Che in teatro si vede tutto».

Ce lo racconti il tuo primo incontro con Eduardo?

«(Lina ride – NdR) Conservo mille ricordi di lui, immagini legate a un quadro fatto di mille sfumature, artistiche e umane, ma di quella giornata, di quel primo incontro ho un ricordo molto vago. Era il 1976, ero una ragazzina di 17 anni, timidissima e scontrosa. Senza un soldo, senza una certezza, senza niente, ma con una forza e una sfrontatezza che solo la giovinezza può dare, per inseguire quel sogno di libertà e di assoluto, quell’aria di vita che sentivo solo sul palcoscenico. Avevo già debuttato nel Masaniello di Armando Pugliese, spettacolo di strada, sotto una tenda da circo, spettacolo di parole, canto, musica, nel ruolo di una piccola mendicante che strisciando dietro lo stendardo della Madonna del Carmine con le ginocchia piegate, inneggia, rabbiosa, alla giustizia. Al Teatro San Ferdinando (per tutti il teatro di Eduardo De Filippo, che lui con fondi propri fece restaurare dopo che fu distrutto dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale – NdR) mi ci portò Gennarino Palumbo, un vecchio attore che lavorava con Eduardo e abitava vicino casa mia a Napoli. “Vieni così ti presento Eduardo. Cerca giovani attrici da inserire nel cast del Sindaco del rione Sanità”.  Non è che di lui sapessi tanto, io andai e lui mi prese per fare la comparsa. Una presenza muta». 

Poi, durante quella stagione, Eduardo mise in scena Gli esami non finiscono mai. L’inizio del sodalizio umano, oltre che artistico, con lui. 

«Cominciò con una sostituzione – questo classico fatto che succede nella vita delle attrici –. Lui sapeva che io cantavo bene, e per Gli esami non finiscono mai, sperai che mi toccasse la Cantastorie, cui invece fu abbinata giustamente Isa Danieli. Mi capitò una cameriera, con una sola frase. Poi m’aggiunse due battute. E più tardi, per una sostituzione, mi dette pure i compiti di una ragazza del popolo, Bonaria, la popolana di cui si innamorava il protagonista, interpretato proprio da De Filippo. Meraviglioso. Un incontro del destino, timido all’inizio, come tutti i grandi amori. Prima quasi una comparsa, poi una battuta, poi due, poi una sostituzione, il destino che sempre decide, poi Natale in casa Cupiello, e altro ancora».

Quale fra le sue 55 commedie ami di piu?

«Filumena Marturano, una delle commedie di Eduardo più intense che porta al pubblico il tema, scottante in quegli anni, dei diritti dei figli illegittimi. Eduardo l’aveva scritta per sua sorella Titina, che si he lamentava come il vero successo della ribalta fosse sempre riservato al protagonista maschile. Quando l’ho interpretata (accanto a Luca De Filippo, per la regia di Francesco Rosi nel 2009 – NdR) mi sono accorta di quanto avesse volutamente scritto che Filomena non piangeva più, perché la sofferenza nel suo cuore aveva seminato una specie di chiusura, qualcosa di vicino alla crudeltà che lei alla fine riesce a superare, conquistandosi finalmente il diritto a una famiglia vera».

Cosa vorresti dire oggi ad Eduardo?

«Aiutami (Lina fa la pausa di un silenzio che è come un pudore – NdR).

Una risposta un po’ vaga. Possiamo approfondire?

«Direi di non aggiungere altro. Se non “Grazie. Non mi migliorate”. È una frase che diceva Eduardo e che mi divertiva. La diceva perfidamente a chi fra gli attori improvvisava rispetto al testo che lui aveva scritto e lo riportava, in altro modo, aggiungendo qualcosa di suo».  

Il 2024 sarà il quarantennale della sua scomparsa. Cosa è rimasto del teatro di Eduardo?

«È senza dubbio uno dei grandi drammaturghi, così come Shakespeare e Moliere. Il suo teatro è Napoli, con Eduardo Napoli diventa un luogo universale in cui prendono vita tutti gli aspetti, incongrui, contraddittori, lacerati, fragili, incomprensibili della vicenda umana. È importante che si continui a portarlo in scena. Nelle sue opere c’è ancora oggi il nostro mondo, le nostre paure, i nostri difetti, gli slanci, le nostre sofferenze e le nostre speranze». 

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