“Plessi. Mari verticali”

La mostra “Plessi. Mari verticali” promossa da Comune di Milano – Cultura @comunedimilano_cultura è allestita nella Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale fino al 10 settembre, ingresso libero.

Si dice “a  Milano manca solo il mare”, eccoli i Mari verticali: la spettacolare video installazione – intervento site-specific, come si usa dire – allestita nella Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale, opera di Fabrizio Plessi, tra i più celebri esponenti a livello internazionale della videoart, emiliano di origine (classe 1940)  ma veneziano di adozione. Dodici gigantesche barche in acciaio nero, alte 9 metri al cui interno scorre fragorosamente, su schermi televisivi, un flusso inarrestabile d’oro. Senza origine né fine. 

Al primo impatto, entrando nel buio della sala, quelle barche sembrano una foresta di alberi a formare un cupo bosco. Solo dopo averlo costeggiato, rivela il suo vero aspetto: un insieme di barche con all’interno il video di un fiume dorato. Come  spinte da un’invisibile onda, impennate nella tempesta, con la prua rivolta verso il soffitto decorato del grande salone. Inclinate,  al limite della caduta. Un’onirica ma potente metafora della condizione umana: le barche in equilibrio precario siamo noi, con le nostre incertezze, le tensioni, le paure per il futuro. Mentre quel fiume d’oro rappresenta l’unica via di salvezza. Non in quanto oro, materiale prezioso fine a sé stesso, ma in quanto risorse naturali, le uniche che possano salvarci.  Gli oceani e l’acqua in primis, minacciati però dall’inquinamento.  

Abbiamo avuto la possibilità di intervistare l’artista per farci raccontare il progetto e più in generale la sua poetica. “Tutto  è pronto per salpare su queste nuove elettroniche arche di Noè, innalzate al cielo per noi, increduli e stupefatti aborigeni-digitali del nostro tempo”, racconta  Fabrizio Plessi con un sorriso aperto  invitandoci a salire a bordo. Capelli bianchi dai bagliori lunari,  lunghi fino alle spalle, portati come una rockstar, completo bianco con pochette rossa, lupetto nero, il volto abbronzato dai venti del mare.

Maestro, la prima domanda:  qual è il suo rapporto con Milano?

«La amo perché non ha una sola identità ma molteplici che convivono. Sono legato alla Rotonda della Besana, dove nel 1985,  con 400 televisori, come Pinocchio nel ventre della balena, allestivo venti videoinstallazioni. La mia prima grande mostra antologica che mi ha poi condotto alla Biennale di Venezia e a Documenta di Kassel. L’opera attese cinque giorni ai cancelli della Biennale. I televisori erano ritenuti elementi non culturali né tantomeno artistici. Esposi questa videoinstallazione costituita da badili conficcati negli schermi dei televisori. Colpivo al cuore la tecnologia».

Che cosa rappresenta per lei la sala delle Cariatidi?

«Mi sono avvicinato a questo luogo in punta di piedi. Sono sempre stato affascinato da questo spazio così pieno di storia, è sempre stato un sogno poterci esporre le mie opere.  Nel 1953 Pablo Picasso vi espose la sua Guernica,  tra i suoi capolavori più dolorosi, Palazzo Reale presentava ancora i segni dei bombardamenti della Seconda Guerra. Guernica è una denuncia contro la violenza cieca del bombardamento e di tutte le guerre».  

La sua opera non regala soltanto un’esperienza visiva e sensoriale unica e coinvolgente, è un inno alla bellezza e alla fragilità del pianeta.

«Oggi come ieri, l’arte credo sia l’unica cosa al mondo che può aiutarci. Può elevare coscienza e pensiero. Smuovere un’indifferenza,  anche visiva.  Di fronte a grandi problematiche, di fronte a questi disastri epocali deve partire la controspinta alla creatività, l’unica che ci può dare una visione del futuro. Non sono l’unico a sostenerlo, per fortuna. Non è qualcosa che riguarda gli ultimi decenni. È qualcosa di molto più antico.  Esplorare è un atto creativo. E’ un mettersi in cammino sia fisicamente che interiormente». 

 È tutta  giocata nel doppio registro del nero e dell’oro.

«Un nero necessario per tornare a vedere la luce e la lucentezza delle nostre preziose possibilità di incontrarci e incontrare la natura. Oro e nero come fasi di una trasformazione e irradiano oro e luce sull’oscurità, sul buio dell’ignoranza, della passività culturale e sociale».

In Mari verticali  l’acqua  si trasforma sorprendentemente in oro. È una trasformazione non solo grandiosa e scenografica, ma dai risvolti politici ed etici. 

«Credo che il nostro futuro dipenda dall’acqua e gli oceani saranno la nostra ricchezza morale e culturale. Ma per ricordare come questo equilibrio sia fragile le barche sono inclinate al limite della caduta. Siamo tutti naufraghi che cercano di aggrapparsi  alle risorse ancora disponibili». 

La barca è presente  spesso nelle sue opere…

«Perché sono un navigatore solitario che naviga ogni giorno in questo mare dell’arte che è sempre in tempesta.  Ma io sto saldamente attaccato al mio timone e so dove andare. In Mari verticali, con il loro precario equilibrio, le barche rappresentano la metafora della condizione umana contemporanea, fatta di instabilità, incertezze e tensioni, sono però coperte da una patina d’oro».

La metamorfosi tra acqua e oro ricorre per una serie di opere intitolate “L’Età dell’Oro”, a cui appartiene anche il progetto ideato e concepito appositamente per il Parco Archeologico di Brixia romana e per il Museo di Santa Giulia di Brescia.

«L’oro è il mio colore ed è anche un simbolo di rinascita dagli ultimi difficili anni che tutto il mondo ha dovuto affrontare. In pandemia ho fatto buttare i miei colori, che erano blu e rosso, per sostituirli con oro e nero. Da qui sono nati 300 progetti dal titolo “L’Età dell’Oro”, che è la mia età, un’età in cui vivo ancora il privilegio di creare». 

L’acqua torna sempre nella sua opera, perché?

«Vivo  a Venezia.  La fluidità, tema costante nella mia opera, l’ho assimilata da questa città.  Io avevo un linguaggio artistico e Venezia me lo ha strutturato, ha dato una grammatica alla mia visione del mondo. Disegnare a Venezia è diverso dal disegnare a Parigi o a Berlino. Tutto sul foglio di carta è fluido, elastico e instabile. E ho sempre pensato che tra l’acqua e il video ci siano delle segrete e profonde analogie.  L’acqua è una risorsa fondamentale per la vita: indispensabile per animali, uomini e piante. Ma è una risorsa limitata, la sua disponibilità non è infinita. Il 12% della popolazione mondiale (inclusi gli europei) consuma l’85% dell’acqua totale; il 25% circa della popolazione mondiale  non ha accesso all’acqua potabile; 1,8 miliardi di persone utilizza fonti contaminate».

Maestro, ad aprile ha festeggiato 83 compleanni ed è  instancabile.

«Per me la vecchiaia non esiste. Venezia, quando si vuole che tutto stia tranquillo e calmo, si dice “no sta far onde”. Ecco, io invece amo fare onde. Muovere le acque, mentalmente e metaforicamente. Nei miei cassetti riposano agitati quasi seimila progetti non ancora realizzati, su carta, tra appunti, schizzi e  progetti: irrinunciabili motori del processo creativo». 

Lei è uno dei pionieri della videoarte in Italia, il primo ad aver utilizzato il monitor televisivo come materiale artistico fin dagli anni settanta  (la sua prima videoinstallazione risale al 1974). Come definirebbe il suo rapporto con la tecnologia?

«Ero convinto che le tecnologie sarebbero state un materiale  per creatività artistica.  Ho scelto dunque di affrontarle, senza mai esserne un fanatico e tenendo conto della memoria storica della nostra cultura.  Un artista ha il dovere di ricercare tutti i mezzi necessari per comunicare nei modi e nei tempi richiesti dall’epoca in cui vive. L’utilizzo delle nuove  tecnologie è legato sempre all’uso che se ne fa. Esiste solo come la usiamo, come la umanizziamo. Se non la domineremo, sarà lei a farlo. Per questa ragione, ho insegnato per circa dieci anni “Umanizzazione delle tecnologie” presso l’università di Colonia». 

Quando la chiamano videoartista dunque non le piace?

«Non mi piacciono le definizioni. Altrimenti Michelangelo sarebbe un marmoartista. Mi considero un alchimista che usa i materiali classici dell’arte come il legno, il ferro, il carbone, la paglia, con il cangiante elettronico del video. Il mio lavoro è l’attraversamento dei linguaggi.  Il futuro ha sempre un cuore antico». 

Meglio i sogni o l’immaginazione?

«L’immaginazione è più importante dei sogni. Perché  l’immaginazione  è quella scintilla creativa che ti fa dare forma al sogno, perché il solo fatto di poterlo immaginare ti fa affrontare la vita in maniera diversa». 

Ha detto: la mia testa è un foglio A3. 

«Penso sempre in grande. È come respirare per me. Tutto parte dal foglio di carta e dall’antichissimo gesto della mano che traccia un segno. Il disegno per me è importantissimo e alla base di ogni progettualità perché è un progetto mentale che passa attraverso la mano e attraverso il cuore. E  la matita è un sismografo che registra le nostre tensioni, i nostri malesseri, le nostre euforie, le nostre più segrete emozioni. Non a caso sul foglio la grafite scorre a volte dura, perentoria, tagliente, sicura, incisiva; a volte invece guardinga, incerta, pudica, innocente, riservata: altre volte leggera, decontratta, fluida, elastica, felice».

La mostra “Plessi. Mari verticali”, promossa da Comune di Milano – Cultura, prodotta da Palazzo Reale e Studio Plessi e curata da Bruno Corà, Alberto Fiz e Marco Tonelli, resterà aperta fino al 10 settembre. Ingresso libero.

photo courtesy @petro_gilberti

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