Champions League – Quella bavarese io e Gino non la digeriremo mai, ma nonostante tutto «Vivalinter!»

Interisti a Monaco di Baviera.

Dopo la sconfitta di Monaco, Michele Mozzati racconta il suo interismo e la dolorosa esperienza sul campo di un tifoso che ha l’Inter nel Dna di famiglia. Nove ore d’auto per essere presente all’evento imperdibile, tutta la notte per tornare distrutti: «Si fa perché l’appartenenza calcistica è sacralità, condivisione, esaltazione, emozione»

di Michele Mozzati

Interisti a Monaco di Baviera.
La curva nerazzurra a Monaco di Baviera.

Come si fa a scrivere nell’immediatezza di una finale Champions appena persa, qualche riga che racconti il tuo stato d’animo?

Si fa, si può fare. Forse può servire a qualcuno che ama il calcio, a prescindere dal proprio tifo, a capire perché non si riesce a rinunciare al fascino di questo gioco, nel bene e nel male.

Ormai è trascorso qualche giorno dal 31 maggio. A bocce ferme siamo più lucidi.

Michele Mozzati.
Michele Mozzati.

Elogio del calcio, dal 4-3 al 5-0 in due settimane

E allora, innanzi tutto: il calcio è più bello di altri sport singoli, dove tutto si misura sull’assoluta sfida tra l’uomo e i suoi limiti, di tempo, di luogo, di potenza. Nel calcio giocano più fattori e più variabili, come spesso accade nei giochi di squadra. Mi pare tutto più umano e in fondo i tifosi e gli amanti di questo sport possono elaborare sfumature di giudizio diverse proprio perché sono differenti e più complessi i fattori di analisi o le sensazioni. Così può accadere come è successo, che l’Inter, che 15 giorni prima, con il medesimo allenatore, la medesima società e più o meno i medesimi giocatori aveva giocato una delle più entusiasmanti partite non solo del calcio nostrano, ma del calcio europeo contemporaneo (Inter-Barcellona 4-3), nella finale conquistata proprio grazie a quella partita possa perdere malamente, con un punteggio quasi tennistico (Paris Saint Germain-Inter 5-0). Mai successo nella sua storia internazionale ufficiale un punteggio negativo così clamoroso per i nerazzurri.

Io c’ero, ma perché ero là?

È accaduto e io ero là, a Monaco di Baviera, sede della finalissima, con il mio socio Gino, un gruppetto di amici e i nostri figli. Bravi, quelli sono “appuntamenti con la storia”, dirà qualcuno. Bravi pirla, dirà qualcun altro: andare fino in Baviera a spendere denaro e fatica per vedere una partita così di merda.

Perché ero là? E chi lo sa. Non c’è un motivo imprescindibile, a parte quello che ho scritto sopra.

Interismo di padre in figli e figli e figli…

Però c’è un motivo forte personale, come spesso accade nel mondo irrazionale delle fedi calcistiche. Ho iniziato a andare allo stadio a dieci, undici anni. La prima partita che ho visto è stata Inter-Lazio 7-0. Nell’Inter giocava gente come Skoglund e Angelillo, ma c’erano ancora miti del passato remoto come Firmani e Lorenzi, tutti nomi che alla maggior parte dei lettori più giovani diranno poco o nulla. Erano dei grandi giocatori di un calcio lontano. Mio padre prima che nascessi aveva giocato nell’Ambrosiana-Inter arrivando a sfiorare la prima squadra. Insomma, per i Mozzati l’Inter è da sempre una cosa di famiglia. Come faccio a non portare mio figlio, che ora ha quasi trent’anni, a vedere una finale di Champions con me? Bella però questa cosa di essere interisti di famiglia. Mia figlia Martina, anche, tifa Inter, e se non avesse avuto impegni di lavoro sarebbe venuta anche lei.

Allo stadio, tra wurstel e magliette nerazzurre

E così eravamo là. Bambini in un mondo quasi adulto. Adulti in un mondo quasi infantile. Allo stadio è un’altra cosa, ragazzi. Anche se si sono fatte nove ore d’auto, code comprese, dalle otto di mattina e ce ne attenderanno altre sette o otto, tutta la notte a viaggiare, a fine partita. Si fa perché l’appartenenza calcistica è sacralità, condivisione, esaltazione, emozione.

Interisti a Monaco di Baviera.

Anche se è soltanto una maglia che accomuna, solo una maglia con due colori.

A proposito, là, all’Allianz Arena di Monaco, quasi ogni tifoso interista indossa una maglia. Alcune sono personalizzate, altre no. Così i Barella e i Lautaro si confondono con un Piervi (il ragazzino si chiama Pier Vittorio?), un Acquafredda, un Pino Carbonella, nome e cognome. Un ambiguo A. Bianchi: è un omaggio al calciatore Alessandro, l’aletta d’antan, o un tale qualsiasi che si chiama Alfonso o Alessio Bianchi da Viggiù o da Calolziocorte? 

Interisti a Monaco.
Interisti a Monaco di Baviera.

Una partita che fa ancora malino

Allo stadio la gente è nervosetta, ma anche felice. È il calcio, signori. Volano panini ai wurstel, bianchi o rossi, due tipi, come i colori del Bayern. E birre. Ma anche tante coche, anzi tutto sommato pochine le birre, ché in fondo il popolo nerazzurro vuole vedere la partita lucido, mica ubriacarsi. “Purtroppo!”, penserà qualcuno a giochi fatti. La partita l’avrete vista anche voi e se non l’avete vista non ve la racconto, ché fa ancora malino. Certo non è servito San Francesco (Acerbi) a cui un ragazzo adulto accanto a me chiedeva protezione, come da foto.

San Francesco Acerbi.
San Francesco Acerbi (non ha fatto la grazia).

Via dopo il fischio (meglio giocatori)

Che è successo alla fine? Siamo usciti subito dopo il fischio finale dell’arbitro, meno sportivi degli stessi sconfitti, i giocatori dell’Inter, che al contrario di noi hanno omaggiato fino in fondo gli avversari, partecipando alla cerimonia. Altra categoria, rispetto alla media dei colleghi, mi verrebbe da dire.

Ho letto masochisticamente di tutto

In questi giorni ho letto di tutto, in giro. Quasi tutte cose modeste o pessime, soprattutto sui social.

Poi, a rincuorarmi, mi ha sorpreso un civilissimo post dell’ex sovraintendente della Scala Dominique Meyer. Questo.

“Non vedo nessuna maglietta nerazzurra stamattina. Ieri, tanti! Ma perché! Non dovete dimenticarvi il bellissimo percorso dell’Inter. (…) Dopo un problema ci si alza, ci si mette al lavoro e si riparte!”  

Il post di Meyer.

Bravo. Intanto vado a riposarmi cercando di recuperare qualche ora di sonno.  Penso a ciò che diceva Giacinto Facchetti, icona imprescindibile dei colori nerazzurri: “Ci sono giorni in cui essere interista è facile, altri in cui è doveroso, e altri in cui è un onore“.

Vivalinter. Tuttoattaccato. Questo lo dico io.

Ps. Ora rileggendo tutto a pochi minuti dall’andare in stampa (sono passate 48 ore) i giornali chiacchieroni mi dicono che il mister se ne va, per guadagnare cifre abnormi in Arabia. In effetti, difficile rinunciare. Ma a me piace pensare che l’abbia fatto ancora una volta per l’Inter, per i suoi giocatori e per i suoi tifosi, soprattutto. Che adesso, grazie a lui avranno un capro espiatorio. Tanto chi se ne frega, non c’è più! Giocatori salvi, anche i vecchi bacucchi (ma che bravi sono stati per tanto tempo!). E i nuovi, e i nuovissimi che ha lasciato in panca. E la società. Da adesso, se va via davvero “per denaro”, la colpa sarà tutta sua. E noi tutti salvi a parlar male di lui. Peccato che io con lui abbia visto uno dei più bei foot ball dei miei sessant’anni di militanza da stadio.

È morto il mister. Viva il mister.

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